Chi comanda in Europa?

Lo sport preferito di ogni politico italiano negli ultimi anni è sempre stato quello di dar colpa all’Europa per ogni decisione impopolare da prendere. Dalle pensioni alle politiche del rigore è sempre colpa dell’Europa. Ma è proprio così? Come decide l’Europa? E come dovrebbe decidere? Su questo tema un confronto al Festival dell’Economia e numerosi articoli pubblicati da lavoce.info raccolti in questo Dossier.

pubblicato sul sito lavoce.info

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Non per cassa, ma per equità

IL CRITERIO DELL’EQUITÀ

Il ministro Enrico Giovannini, in un’intervista al Corriere della Sera, ha ventilato l’ipotesi di un prelievo sulle pensioni sopra una certa soglia, sostenendo che “non si vede perché nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti qualcuno debba essere escluso”, aggiungendo che un simile intervento “non porterebbe molti soldi, ma sarebbe una misura di giustizia sociale”.
Questa impostazione ha il merito di porre l’accento sul fatto che un criterio di equità, e non di mera sostenibilità finanziaria, impone di guardare in maniera trasparente e selettiva ai trattamenti pensionistici in essere.

La lenta transizione verso un sistema previdenziale in equilibrio, iniziata nel 1995, ha salvaguardato molti a scapito di due forme di equità: quella attuariale (per cui ciascuno dovrebbe ricevere un beneficio commisurato ai contributi che ha versato e a un rendimento sostenibile) e quella tra generazioni (per cui nessuna coorte dovrebbe far pagare i propri consumi correnti a quelle future). Prima della riforma Dini c’erano stati una serie di interventi, motivati da ragioni di convenienza elettorale immediata, che avevano portato a concedere trattamenti molto generosi a categorie specifiche di pensionandi. Ad esempio, negli anni di esplosione del debito pubblico, ai lavoratori autonomi era stato concesso di andare in pensione con le regole del metodo retributivo, quelle che consentivano allora versando i contributi negli ultimi tre anni di una carriera di ottenere poi pensioni del 70-80 per cento dell’ultimo reddito dichiarato. Per carità, quel che è stato è stato. Ma si può ancora fare qualcosa per riparare. Se appare giusto chiedere di più a “chi ha di più”, infatti, viste le distorsioni del nostro stato sociale, perché non dovrebbe apparire altrettanto giusto chiedere di più a “chi ha avuto di più”?

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Semi-presidenzialismo, un errore da non commettere

Mentre il governo Letta cerca faticosamente di trovare il bandolo di una matassa sempre più intricata, riparte prontamente il dibattito sul semi-presidenzialismo. Un tempo era il MSI a chiedere insistentemente che si passasse dalla democrazia parlamentare all’elezione diretta del Capo dello Stato, ma all’epoca, grazie a Dio, esisteva il cosiddetto “arco costituzionale” e il MSI era considerato al di fuori. Poi è arrivato Berlusconi, e il leaderismo, con annesso referendum continuo sulla sua persona, è diventato la cifra politica di tutte le competizioni: dalle Politiche alle Amministrative nel più piccolo dei comuni. Infine, con alcune lodevoli eccezioni, è arrivata la generazione dei quarantenni, quella dei “rottamatori” (a sinistra) e dei “formattatori” (a destra), quella che ama definirsi “post-ideologica” e fa dell’assenza di una visione ideale e complessiva della società e del futuro una bandiera anziché preoccuparsi del fatto che, assottigliando progressivamente tutte le differenze tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, fino ad arrivare addirittura a sostenere che esse non esistano più e considerare questo un aspetto positivo, la politica non solo ha perso di valore ma ha smarrito tutta la propria bellezza e persino la sua ragione di esistere.

Quello che un tempo era il confronto tra due visioni opposte del mondo (d’altronde, il significato di “ideologia” è proprio: “discorso su una visione”), si è trasformato oggi in un feroce scontro fra personalismi, particolarmismi e super-io smisurati che altro non ha prodotto se non il progressivo e inesorabile distacco dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni.

D’altronde, basta trascorrere qualche ora davanti a un talk show per accorgersi di quanto sia drammatica questa mancanza di visione: lo si capisce dai discorsi degli ospiti in studio, certo, ma persino dalle domande dei conduttori, dai servizi mandati in onda, dagli interventi del pubblico; si capisce, in poche parole, che si tratta per lo più di discorsi fumosi, di riflessioni sul nulla, di conflitti da salotto che non rendono giustizia né al valore di tanti ottimi giornalisti né all’importanza del dibattito pubblico sui temi del Paese. Il guaio è che senza un’ideologia, senza dei motivi di contrasto che vadano al di là della simpatia personale e delle sparate di Tizio o di Caio, cedendo all’idea aberrante dell’“uomo solo al comando” e arrivando addirittura ad esaltarla come l’unica soluzione in grado di condurre l’Italia fuori dalle secche della crisi, nessuna discussione potrà mai avere senso perché sarà sempre una tessera senza mosaico, una riflessione fuori da qualsiasi contesto, un pensiero che non riuscirà mai a trasformarsi in azione e, dunque, ad essere concreto.

Per questo, oggi esiste un bipolarismo di fatto tra votanti e astensionisti: non per via della legge elettorale (che pure, almeno a livello nazionale, ha il suo peso in quanto il Porcellum è davvero un obbrobrio da rimuovere quanto prima) e nemmeno a causa dell’eccessivo numero dei parlamentari o dell’esistenza del bicameralismo perfetto. Chi indica questi come i problemi più urgenti da risolvere o è in malafede o, semplicemente, dimostra una volta di più di non avere una visione della società nel suo insieme. Il punto, al contrario, è che la maggior parte delle persone si pone le seguenti domande: non per chi, ma per cosa devo votare? Cosa propongono i vari candidati di concreto? Quali sono le differenze tra l’uno e l’altro? Chi di questi saprà rappresentare meglio i miei interessi? E il dramma è che molti si rispondono: nessuno, sono tutti uguali. Il che, a forza di varare governi tecnici e governi di larghe intese, governissimi e bicamerali, rischia persino di trasformarsi in una tragica e maledetta verità, annullando definitivamente quelle differenze di cui la gente avrebbe bisogno per tornare a credere in qualcosa o, quanto meno, in qualcuno.

Senza contare l’altro assurdo dibattito sull’assenza di decisionismo nel nostro Paese, come se ce ne fossero pochi di populisti, demagoghi e autocrati di varia natura che tendono a soffocare qualunque discussione all’interno della propria organizzazione e a chiedere che sia messa la sordina a quei giornalisti che, giustamente, non rinunciano a fare il proprio mestiere con la schiena dritta e a testa alta, raccontando la verità dei fatti senza compiacere nessuno.

E qui si torna al punto di partenza, ossia all’eterno sogno di una certa destra di allentare quei vincoli posti dai padri e dalle madri costituenti a garanzia della Costituzione e, di conseguenza, della tenuta stessa della nostra democrazia.

Perché il semi-presidenzialismo non è altro che questo: il suggello del leaderismo senza ideali, dello scontro tra le persone e non tra le idee, del personalismo esasperato ed esasperante, della scomparsa di quelle figure di garanzia che, specie negli ultimi vent’anni, sono state indispensabili per arginare il degrado morale, la deriva politica e le pulsioni autoritarie sempre più frequenti in un Paese allo sbando.

Alcuni commentatori, e anche alcuni autorevolissimi opinionisti, obiettano che in altri paesi c’è e nessuno può dire che la Francia non sia una democrazia matura: già, ma ogni nazione ha la sua storia e Oltralpe la Costituzione della Quinta Repubblica è stata redatta da un signore di nome Charles De Gaulle, non da una classe dirigente che non è stata nemmeno in grado di rinnovare il Capo dello Stato.

Per non parlare poi della questione del conflitto d’interessi: una questione unica in Europa e in Occidente, concordo, ma assai presente in Italia, dove un magnate televisivo domina la scena politica dal 1994.

Per queste e per mille altre ottime ragioni, siamo fermamente contrari a una riforma in senso semi-presidenziale della forma dello Stato, chiunque sia a proporla: che si tratti degli eredi del MSI o di chi, a sinistra, in alcuni casi non ha ancora compreso la natura intrinseca di Berlusconi e in altri la considera perfettamente normale e accettabile.

Noi non apparteniamo a nessuna di queste categorie e, pertanto, diciamo no e ci opponiamo con vigore a quest’ennesima discesa verso il basso, pur sapendo che certi fenomeni sono purtroppo epocali e che un giorno, probabilmente, saremo chiamati a piangere anche noi gli errori, i silenzi e le omissioni di chi non ha capito o non ha voluto capire per tempo i pericoli ai quali stiamo andando incontro.

Articolo di Roberto Bertoni

 

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L’altra Europa

Costruire un movimento per un’Europa democratica, sociale, ecologica e femminista. Su queste parole d’ordine i movimenti europei si sono ritrovati ad Atene venerdì e sabato scorso. Un Altersummit che ha visto riuniti nello stadio olimpico della capitale greca centinaia di persone in una due giorni di confronto animata da workshop e seminari tematici.

Le conseguenze dell’austerity sono sotto gli occhi di tutti. Dai servizi essenziali come la sanità ai beni comuni e alla difesa del territorio, la strada in tutta Europa è quella della privatizzazione a beneficio di pochi. In un mondo globalizzato dove si santifica la libertà di circolazione per i capitali, i movimenti delle persone in fuga da guerre e privazioni sono ostacolati in ogni modo. Migranti e donne sono i soggetti sociali che più soffrono le conseguenze dell’austerità, spiegano gli attivisti arrivati da tutti i paesi d’Europa (e non solo). Ma se l’analisi è condivisa, a cinque anni dall’inizio della grande crisi, il punto è come rimettere in moto un movimento sociale a livello europeo che sia in grado di incidere e cambiare davvero le cose.

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Scuola, lavoro, giovani: modello tedesco

Ocse ha presentato alcuni dati sull’occupazione giovanile in Europa. Il quadro è pessimo: 22 milioni di under 25 hanno smesso di studiare o di seguire corsi di formazione e non lavorano (Not in Employment, Education and Training). Per quanto riguarda l’Italia, dove i NEET sono il 21,5%, si evidenziano almeno tre criticità: più della metà di questi un lavoro neanche lo cercano; la disoccupazione giovanile (16-24 anni) è almeno 4 volte superiore a quella degli over 25; per tasso di disoccupazione di lunga durata siamo superiori anche a Grecia e Irlanda.

Come aggredire questa vera e propria emergenza? Una leva fondamentale dovrebbe essere il sistema di istruzione e formazione. Ma anche a questo proposito, Ocse sottolinea un dato allarmante: uno studente su cinque lascia la scuola senza disporre delle competenze necessarie nel mercato del lavoro. Peraltro, secondo numerose ricerche, la percezione da parte degli studenti dell’inutilità della formazione che stanno ricevendo è tra le ragioni principali dell’abbandono scolastico, altro dramma italiano.

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Lavoro, e non reddito, di cittadinanza

Nel sesto anno della crisi più lunga e più grave del secolo la mia opinione è che gli sforzi ideativi e pratici del governo e delle forze politiche di sinistra dovrebbero concentrarsi sul “lavoro di cittadinanza” piuttosto che sul “reddito di cittadinanza”, anche per l’ovvio motivo che dal “lavoro di cittadinanza” scaturirebbe naturalmente un reddito decente, mentre dal “reddito di cittadinanza” non è detto che scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente. L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il “reddito minimo di inserimento” (che da noi fu introdotto sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni), così come deve allargare e universalizzare gli “ammortizzatori sociali” legati alla perdita del lavoro. Ma bisogna avere chiare le differenze tra “lavoro di cittadinanza”, “ammortizzatori sociali”, varie forme di “reddito minimo”, “reddito di cittadinanza”, quest’ultima un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di “reddito minimo”, non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato.

Le ragioni del mio non optare per la strategia di “reddito di cittadinanza” non attengono solo a problemi di costo: questi sarebbero immensi – al punto che Gnesutta parla di centinaia di miliardi di euro –, a fronte del limitato ammontare che sarebbe richiesto da un “Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne” (come quello contenuto nel “Libro bianco. Tra crisi e grande trasformazione”, Ediesse, da me curato per la Cgil, il quale potrebbe avere inizio con progetti, ispirati al New Deal di Roosvelt, di 1 o 2 miliardi di euro). Un costo così illimitato rende il primo semplicemente irrealizzabile e il secondo assai più credibile, se ci fosse, però, una volontà politica ben altrimenti radicale.

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Serracchiani: Lavoro, infrastrutture e bilancio al centro della settimana in Friuli Venezia Giulia

La scorsa settimana i principali temi della mia attività sono stati il lavoro, le infrastrutture e le scelte per l’assestamento del bilancio, dopo aver richiamato, il 2 giugno, i valori dell’etica nella vita pubblica in occasione della festa della Repubblica celebrata sobriamente ma in modo solenne al Sacrario di Redipuglia.

Lunedì, durante un incontro con il presidente di Hypo Alpe Adria Bank Johannes Proksch, ho approfondito la situazione di Hypo Bank Italia. Un incontro aperto e cordiale in cui ho confermato l’impegno della Regione a difendere l’occupazione e il ruolo dell’Istituto che ha sede a Tavagnacco (UD). Per farlo in maniera efficace ho inviato una lettera ai presidenti della Regione Veneto e della Regione Lombardia, territori in cui la banca ha diverse filiali.

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Digitale & Pubblica amministrazione, accentrare i servizi per creare lavoro

Siamo continuamente bombardati da notizie negative sulla situazione occupazionale del Paese. Eppure una via c’è, soprattutto per dare spazio alle giovani generazioni – non è un caso che il presidente Letta vi insista a più riprese – che ne hanno assoluto e urgente bisogno.

Quale? Occorre puntare sulla innovazione tecnologica e sulla sua implementazione nella pubblica amministrazione centrale e locale.

Partiamo da alcune brevi considerazioni: le regioni, le provincie e i comuni gestiscono la loro burocrazia con l’ausilio di centri di calcolo e quindi con l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Ma lo fanno male, e per tre ragioni: fanno tutti le stesse cose nell’ambito delle specifiche competenze funzionali; non dialogano fra loro; non rendono un servizio sufficientemente dignitoso ai cittadini e alle imprese.

I problemi esposti non si possono risolvere tutti in un sol colpo. Si può cominciare però con una forte decisione politica tesa a stabilire, in Conferenza Unificata, che senza perdita di autonomia è possibile accentrare, almeno a livello regionale, le funzioni ICT attualmente svolte da regioni, province e comuni. Questa operazione comporterebbe una drastica riduzione dei costi per le singole istituzioni, lo sgravio delle competenze gestionali e la creazione di migliaia di posti di lavoro su tutto il territorio nazionale per esperti ICT che dovrebbero occuparsi di sviluppare, realizzare e gestire detti progetti.

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Intervento di Debora Serracchiani a sostegno di Ignazio Marino

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La speranza dei ragazzi di Istanbul

Una generazione che scende in piazza a presidio degli alberi del Gezi Park a Istanbul: alberi che il governo Erdogan vorrebbe abbattere per sostituirli, a quanto pare, con un centro commerciale, una caserma e una moschea. Un intero Paese che si risveglia e inizia a gridare la propria rabbia nei confronti di un’amministrazione opprimente e repressiva, incapace di tollerare qualsiasi forma di dissenso e priva di qualunque scrupolo nel far arrestare giornalisti, intellettuali e tutti coloro che, da sempre, turbano i sogni e sconvolgono i piani di quei governanti ai quali – per dirla con un giovane dimostrante di Istanbul – a un certo punto “parte il cervello”, iniziando a sentirsi i padroni della propria nazione.

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