Mentre il governo Letta cerca faticosamente di trovare il bandolo di una matassa sempre più intricata, riparte prontamente il dibattito sul semi-presidenzialismo. Un tempo era il MSI a chiedere insistentemente che si passasse dalla democrazia parlamentare all’elezione diretta del Capo dello Stato, ma all’epoca, grazie a Dio, esisteva il cosiddetto “arco costituzionale” e il MSI era considerato al di fuori. Poi è arrivato Berlusconi, e il leaderismo, con annesso referendum continuo sulla sua persona, è diventato la cifra politica di tutte le competizioni: dalle Politiche alle Amministrative nel più piccolo dei comuni. Infine, con alcune lodevoli eccezioni, è arrivata la generazione dei quarantenni, quella dei “rottamatori” (a sinistra) e dei “formattatori” (a destra), quella che ama definirsi “post-ideologica” e fa dell’assenza di una visione ideale e complessiva della società e del futuro una bandiera anziché preoccuparsi del fatto che, assottigliando progressivamente tutte le differenze tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, fino ad arrivare addirittura a sostenere che esse non esistano più e considerare questo un aspetto positivo, la politica non solo ha perso di valore ma ha smarrito tutta la propria bellezza e persino la sua ragione di esistere.
Quello che un tempo era il confronto tra due visioni opposte del mondo (d’altronde, il significato di “ideologia” è proprio: “discorso su una visione”), si è trasformato oggi in un feroce scontro fra personalismi, particolarmismi e super-io smisurati che altro non ha prodotto se non il progressivo e inesorabile distacco dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni.
D’altronde, basta trascorrere qualche ora davanti a un talk show per accorgersi di quanto sia drammatica questa mancanza di visione: lo si capisce dai discorsi degli ospiti in studio, certo, ma persino dalle domande dei conduttori, dai servizi mandati in onda, dagli interventi del pubblico; si capisce, in poche parole, che si tratta per lo più di discorsi fumosi, di riflessioni sul nulla, di conflitti da salotto che non rendono giustizia né al valore di tanti ottimi giornalisti né all’importanza del dibattito pubblico sui temi del Paese. Il guaio è che senza un’ideologia, senza dei motivi di contrasto che vadano al di là della simpatia personale e delle sparate di Tizio o di Caio, cedendo all’idea aberrante dell’“uomo solo al comando” e arrivando addirittura ad esaltarla come l’unica soluzione in grado di condurre l’Italia fuori dalle secche della crisi, nessuna discussione potrà mai avere senso perché sarà sempre una tessera senza mosaico, una riflessione fuori da qualsiasi contesto, un pensiero che non riuscirà mai a trasformarsi in azione e, dunque, ad essere concreto.
Per questo, oggi esiste un bipolarismo di fatto tra votanti e astensionisti: non per via della legge elettorale (che pure, almeno a livello nazionale, ha il suo peso in quanto il Porcellum è davvero un obbrobrio da rimuovere quanto prima) e nemmeno a causa dell’eccessivo numero dei parlamentari o dell’esistenza del bicameralismo perfetto. Chi indica questi come i problemi più urgenti da risolvere o è in malafede o, semplicemente, dimostra una volta di più di non avere una visione della società nel suo insieme. Il punto, al contrario, è che la maggior parte delle persone si pone le seguenti domande: non per chi, ma per cosa devo votare? Cosa propongono i vari candidati di concreto? Quali sono le differenze tra l’uno e l’altro? Chi di questi saprà rappresentare meglio i miei interessi? E il dramma è che molti si rispondono: nessuno, sono tutti uguali. Il che, a forza di varare governi tecnici e governi di larghe intese, governissimi e bicamerali, rischia persino di trasformarsi in una tragica e maledetta verità, annullando definitivamente quelle differenze di cui la gente avrebbe bisogno per tornare a credere in qualcosa o, quanto meno, in qualcuno.
Senza contare l’altro assurdo dibattito sull’assenza di decisionismo nel nostro Paese, come se ce ne fossero pochi di populisti, demagoghi e autocrati di varia natura che tendono a soffocare qualunque discussione all’interno della propria organizzazione e a chiedere che sia messa la sordina a quei giornalisti che, giustamente, non rinunciano a fare il proprio mestiere con la schiena dritta e a testa alta, raccontando la verità dei fatti senza compiacere nessuno.
E qui si torna al punto di partenza, ossia all’eterno sogno di una certa destra di allentare quei vincoli posti dai padri e dalle madri costituenti a garanzia della Costituzione e, di conseguenza, della tenuta stessa della nostra democrazia.
Perché il semi-presidenzialismo non è altro che questo: il suggello del leaderismo senza ideali, dello scontro tra le persone e non tra le idee, del personalismo esasperato ed esasperante, della scomparsa di quelle figure di garanzia che, specie negli ultimi vent’anni, sono state indispensabili per arginare il degrado morale, la deriva politica e le pulsioni autoritarie sempre più frequenti in un Paese allo sbando.
Alcuni commentatori, e anche alcuni autorevolissimi opinionisti, obiettano che in altri paesi c’è e nessuno può dire che la Francia non sia una democrazia matura: già, ma ogni nazione ha la sua storia e Oltralpe la Costituzione della Quinta Repubblica è stata redatta da un signore di nome Charles De Gaulle, non da una classe dirigente che non è stata nemmeno in grado di rinnovare il Capo dello Stato.
Per non parlare poi della questione del conflitto d’interessi: una questione unica in Europa e in Occidente, concordo, ma assai presente in Italia, dove un magnate televisivo domina la scena politica dal 1994.
Per queste e per mille altre ottime ragioni, siamo fermamente contrari a una riforma in senso semi-presidenziale della forma dello Stato, chiunque sia a proporla: che si tratti degli eredi del MSI o di chi, a sinistra, in alcuni casi non ha ancora compreso la natura intrinseca di Berlusconi e in altri la considera perfettamente normale e accettabile.
Noi non apparteniamo a nessuna di queste categorie e, pertanto, diciamo no e ci opponiamo con vigore a quest’ennesima discesa verso il basso, pur sapendo che certi fenomeni sono purtroppo epocali e che un giorno, probabilmente, saremo chiamati a piangere anche noi gli errori, i silenzi e le omissioni di chi non ha capito o non ha voluto capire per tempo i pericoli ai quali stiamo andando incontro.
Articolo di Roberto Bertoni